Libertà e umanità oggi

di Marco Moretti (psicologo psicoterapeuta, autore e formatore)

L’attuale pandemia, quale trauma collettivo, e la sua gestione hanno generato notevoli disturbi psichici e psicosociali, che numerosi psicologi e psichiatri hanno più volte sottolineato [1].

Dal punto di vista della psicologia umanistica (Alberti, 2007) e delle neuroscienze (Bzdok e Dumbar, 2020) le attuali limitazioni imposte al contatto e all’incontro interpersonali, la paura collettiva alimentata dai mass media, e i conflitti sociali che queste generano, anziché promuovere il benessere psicologico favoriscono il processo di ritiro interpersonale ed esclusione sociale già avviato con i precedenti lockdown.

Gli studi focalizzati sulla resilienza comunitaria (community resilience), mostrano che comunità oppresse o esposte a catastrofi o alla guerra sono comunque in grado di fronteggiare le avversità grazie ad un maggior senso di comunità e che la resilienza comunitaria percepita si traduce quale risorsa individuale per far fronte all’avversità (Sonn e Fisher, 1998; Kimhi e Shamai, 2004). Secondo queste ricerche la capacità di attivare un processo riparatorio resiliente, nonostante le vulnerabilità, si distingue per la presenza di fattori protettivi, quali ad esempio i legami familiari, amicali e sociali significativi tali da poter contare sul sostegno affettivo, reti di supporto e solidarietà sociale, senso di comunità.

Dal punto di vista della psicologia umanistica e degli studi sull’attaccamento (Johnson, 2015), l’essere umano si sente libero quando può essere pienamente se stesso, può dare voce ai propri sentimenti ed espressione spontanea al proprio movimento di incontro verso l’altro.

Il fatto di potersi guardare, ascoltare, incontrare ed entrare reciprocamente in contatto è la base della relazione umana, della condivisione e della compartecipazione che costituiscono il tessuto della comunità umana. Questo tessuto rappresenta la condizione vitale ed essenziale per la nostra humanitas, in altre parole ciò che dà la possibilità di consolidare relazioni pienamente umane in cui vi possano essere attenzione, aiuto e cura reciproci.

Ciò che ci rende pienamente umani, dunque, è la relazione interpersonale, il fatto di coltivare relazioni in cui vi possa essere una responsività emotiva, la costruzione e il consolidamento di legami significativi. In altre parole, i fattori protettivi della resilienza comunitaria, non sono solo ciò che ci rendono più forti nelle avversità, sono proprio ciò che ci rendono pienamente umani.

Quando si impedisce il movimento di incontro reciproco, si favorisce la frammentazione delle relazioni umane e, dal punto di vista psicologico, si assiste a un progressivo processo di de-umanizzazione in cui le persone tendono a ritirarsi, isolarsi, anestetizzare i propri sentimenti, pensare di non aver bisogno gli uni degli altri e perdere la fiducia nell’altro.

Questa progressiva de-umanizzazione coincide con la perdita della propria libertà di essere pienamente se stessi, quale espressione dei propri sentimenti e del proprio movimento spontaneo. Ciò che avviene è una patologizzazione della libertà: un’apparente libertà di pensare, senza poter sentire e agire spontaneamente.

Quando l’essere umano ha la possibilità di esprimere pienamente la propria umanità e i propri sentimenti attraverso l’incontro, la condivisione, la compartecipazione e la solidarietà data dal senso di comunità, trova la propria sicurezza nella relazione umana.

La perdita del proprio senso di umanità fa sì che l’essere umano perda la sua libertà e, privato di se stesso, divenga un uomo/cosa, in altre parole un non-uomo. In un tale processo di de-umanizzazione si trova la propria sicurezza nel controllo. Il controllo, infatti, ha come base la sfiducia reciproca. Tale preoccupante situazione pone le basi affinché poi sia possibile esercitare una volontà di potere da parte di chi, non essendo interiormente libero, ricerca il potere sugli altri.

Il processo di de-umanizzazione riduce gli esseri umani a oggetti, anziché soggetti in relazione. Qual è dunque la differenza fra un’idea/oggetto e un uomo/oggetto?

Poiché l’idea/oggetto, può facilmente diventare gerarchicamente superiore all’uomo/oggetto, per un’idea si potrebbe arrivare a rompere le proprie relazioni significative.

Il dialogo è possibile solo quando due soggetti umani, che hanno cura di ciò che avviene “tra” loro, cioè che mettono al primo posto la relazione umana, considerano le loro idee quali concetti relativi di cui discutere e confrontarsi. Diversamente, due uomini/oggetti non riescono a costruire un dialogo, poiché tendono a considerare le loro idee in modo assoluto e gerarchicamente più importanti della loro stessa relazione umana. Si tratta di una patologia della libertà, poiché il pensiero perde la sua generatività, divenendo autoreferenziale e de-umanizzante.

Ogni volta che una persona decide si salvare un’idea a discapito di una relazione interpersonale, in quel preciso momento si sta de-umanizzando. Solo un essere pienamente umano, infatti, può decidere di salvaguardare una relazione umana a discapito di un’idea, poiché pone la relazione al primo posto nella sua scala dei valori.

Quando la relazione umana è al primo posto la Legge, le istituzioni, la scienza o qualsiasi altra dottrina sono al servizio dell’essere umano. Altrimenti avviene il contrario, l’uomo/oggetto diviene servo della Legge, delle istituzioni e della scienza.

Come scrive Alberto Alberti (2007): “Un uomo nasce libero e pienamente ama. Ma, se viene gettato in un mondo di persone non libere, la sua libertà non sarà amata, e forse anche lui cesserà di amare e di essere libero.

Infatti, chi non è libero, quando si trova di fronte ad una persona veramente libera [cioè pienamente umana], vede riflesso in lei ciò che gli manca, per cui prende coscienza della propria assenza di libertà, e quindi del proprio fallimento esistenziale. Nella maggior parte dei casi egli non è in grado di tollerare ciò, per cui cercherà di possedere o di comprimere la libertà dell’altro.

Ma non è sempre così: talvolta può accadere che l’esempio vivente di una persona libera o che si libera, che liberamente sente, ama e gioisce, arrivi a sfiorare leggermente la sua anima, provocando in essa un piccolo turbamento.

Può accadere allora che l’anima, così toccata, riconosca l’illusorietà del suo vissuto di prigionia, si accorga di se stessa, e si ricordi di essere libera.”

Per affrancarci da questo processo di de-umanizzazione dovremmo cercare di consolidare e sviluppare le relazioni affettive e nuove amicizie. L’amicizia, infatti, è la forma di relazione in cui, nel rispetto dei limiti, due soggetti amano reciprocamente la libertà propria e dell’altro.

È necessario allargare il tessuto della comunità umana all’interno della nostra società. Creare una comunità nella società, affinché l’essere umano possa riguadagnare la propria libertà di essere pienamente umano.

Riferimenti

Alberto Alberti (2007), Psicosintesi e oltre, L’Uomo Edizioni, Firenze.

Bzdok D., Dumbar R.I.M. (2020) “The Neurobiology of Social Distance”, Trends in Cognitive Sciences, 24 (9), pp. 717-733 
https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1364661320301406

Johnson S.M. (2015), Terapia di coppia focalizzata sulle emozioni con sopravvissuti al trauma. Il potenziamento dei legami di attaccamento. ISC Editore, Sassari.

Kimhi S., Shamai M. (2004) “Community resilience and the impact of stress: Adult response to Israel’s withdrawal from Lebanon”, Community Psychology, 32(4), pp. 439-451. 
https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/jcop.20012

Sonn C.C., Fisher A.T. (1998) “Sense of community: Community resilient responses to oppression and change”, Journal of community psychology, 26(5), pp. 475-472. 
https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1002/(SICI)1520-6629(199809)26:5%3C457::AID-JCOP5%3E3.0.CO;2-O